Non
è noto il programma di oggi nella nostra visita al Centro Dream. So che dovrei
continuare a vedere lo svolgimento del lavoro nell’Ambulatorio e nel
Laboratorio, prima di ripartire per Nchiru. Essendo arrivato, forse, in
anticipo (ma qui i tempi non sono “occidentali”), mi siedo nel bel gazebo
situato di fronte all’ingresso del Centro. Nei giorni scorsi ho notato qui la
presenza di una donna che mette in mostra in una teca alcuni tipi di legumi e
cereali locali insieme a dei depliant esplicativi. Servono per l’educazione
alimentare, contro la malnutrizione, a tutti quelli che vengono a visita. La
donna illustra e risponde alle domande. Ottima iniziativa, ho pensato. Aspetto,
dunque, seduto insieme con altre due donne e un ragazzino. Sguardi di curiosità
reciproci. La sister tarda, i medici pure, ma il gazebo si riempie sempre di
più, soprattutto di ragazzi di varia età, soli o con la mamma. Poi arrivano due
signori che mi salutano, presentandosi. Siccome qui sono tutti gentili con i
“mzungu” (i bianchi), rispondo con la medesima cortesia. Nel gazebo piano piano
arrivano fino a 25 persone; i due signori, poi diventati 3, portano dei libri e
una cartella con delle didascalie. Dopo una breve preghiera, recitata da tutti
a testa bassa, uno dei tre si mette a spiegare la cartella. Io, ormai, capisco
di che si tratta, comunque sister Alice, nel frattempo arrivata, e l’altro
signore mi spiegano che questo è un incontro periodico con i sieropositivi per
un processo di educazione continua che Dream si è proposto di realizzare.
Questi volontari sono 12 e formano una specie di associazione denominata
“Community health workers”. Sono persone normali, anch’essi positivi con figli
positivi, ma prestano la loro opera, altamente meritoria, di collaborare sul
campo insieme con il Personale sanitario. In pratica, questi sieropositivi
vengono qui per un appuntamento periodico e, dopo una riunione in comune,
divisi in gruppi in base all’età, vengono “istruiti” dai volontari. Mi viene
chiesto a quale gruppo intendo partecipare, io scelgo gli adolescenti. Così, ci
trasferiamo in un’aula e ascoltiamo il discorso di sister Alice, solo per oggi
prestata all’insegnamento. L’incontro prevede, anche, un compito da eseguire su
un quaderno: viene chiesto di disegnare i propri familiari, poi di scrivere i
problemi personali e i desideri per il futuro. Pur ascoltando una lingua
assolutamente sconosciuta, il mio animo in fermento è preso da tutto quello che
mi sta accadendo intorno. Una compostezza esemplare tiene questi otto ragazzi
attenti alle parole della sister, senza alcun segno di stanchezza né
d’irrequietezza. So che alcuni di essi provengono da soli a piedi da posti
molto lontani. La parola che più risuona nella mia mente è “sorprendente”.
Erroneamente in tanti pensano (pensiamo) che qui in Africa il problema AIDS sia
affrontato dagli occidentali verso una popolazione sorda alle voci di allarme.
Vedo con soddisfazione che non è così.
Esiste un volontariato locale composto di persone consapevoli, seppure
sieropositive, o forse proprio per questo, che sono spinte dall’intento di
aiutare gli altri simili a vivere al meglio questa condizione
“patologica”. E’ ammirevole questa loro
dedizione in un ambiente dove le risorse scarseggiano, seppure si sa che la
Comunità di S. Egidio non risparmia nulla per venire incontro a una popolazione
in difficoltà. Questa opera educativa, tra l’altro, viene svolta anche al
domicilio di tanti che non riescono a raggiungere il Centro. E muoversi qui, in
queste strade, non è proprio facile, non è una passeggiata. L’incontro termina
con una Coca-cola o una Fanta e alcuni cake.
Cosa mi rimane di questi tre giorni intensi qui a Matiri: ho visto
un’efficiente struttura sanitaria per la prevenzione e la cura della
sieropositività, nonché una sorprendente sensibilità e partecipazione locale
all’argomento. Tutto questo in una realtà ambientale più degradata di altre
(per esempio la nostra di Nchiru), con una popolazione sparsa in zone impervie,
in una terra arida e perciò incolta, che vive in abitazioni fatte di fango, con
l’acqua da prendere ogni giorno a chilometri di distanza a piedi, con le
taniche sulla schiena. Qui l’alba e il tramonto non sono uno spettacolo da
gustare prima di andare a cena al lume di candela. Qui non c’è nemmeno la
candela. Al tramonto si spegne la vita.
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