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sabato 25 agosto 2012

Gazebo d'incontro



Non è noto il programma di oggi nella nostra visita al Centro Dream. So che dovrei continuare a vedere lo svolgimento del lavoro nell’Ambulatorio e nel Laboratorio, prima di ripartire per Nchiru. Essendo arrivato, forse, in anticipo (ma qui i tempi non sono “occidentali”), mi siedo nel bel gazebo situato di fronte all’ingresso del Centro. Nei giorni scorsi ho notato qui la presenza di una donna che mette in mostra in una teca alcuni tipi di legumi e cereali locali insieme a dei depliant esplicativi. Servono per l’educazione alimentare, contro la malnutrizione, a tutti quelli che vengono a visita. La donna illustra e risponde alle domande. Ottima iniziativa, ho pensato. Aspetto, dunque, seduto insieme con altre due donne e un ragazzino. Sguardi di curiosità reciproci. La sister tarda, i medici pure, ma il gazebo si riempie sempre di più, soprattutto di ragazzi di varia età, soli o con la mamma. Poi arrivano due signori che mi salutano, presentandosi. Siccome qui sono tutti gentili con i “mzungu” (i bianchi), rispondo con la medesima cortesia. Nel gazebo piano piano arrivano fino a 25 persone; i due signori, poi diventati 3, portano dei libri e una cartella con delle didascalie. Dopo una breve preghiera, recitata da tutti a testa bassa, uno dei tre si mette a spiegare la cartella. Io, ormai, capisco di che si tratta, comunque sister Alice, nel frattempo arrivata, e l’altro signore mi spiegano che questo è un incontro periodico con i sieropositivi per un processo di educazione continua che Dream si è proposto di realizzare. Questi volontari sono 12 e formano una specie di associazione denominata “Community health workers”. Sono persone normali, anch’essi positivi con figli positivi, ma prestano la loro opera, altamente meritoria, di collaborare sul campo insieme con il Personale sanitario. In pratica, questi sieropositivi vengono qui per un appuntamento periodico e, dopo una riunione in comune, divisi in gruppi in base all’età, vengono “istruiti” dai volontari. Mi viene chiesto a quale gruppo intendo partecipare, io scelgo gli adolescenti. Così, ci trasferiamo in un’aula e ascoltiamo il discorso di sister Alice, solo per oggi prestata all’insegnamento. L’incontro prevede, anche, un compito da eseguire su un quaderno: viene chiesto di disegnare i propri familiari, poi di scrivere i problemi personali e i desideri per il futuro. Pur ascoltando una lingua assolutamente sconosciuta, il mio animo in fermento è preso da tutto quello che mi sta accadendo intorno. Una compostezza esemplare tiene questi otto ragazzi attenti alle parole della sister, senza alcun segno di stanchezza né d’irrequietezza. So che alcuni di essi provengono da soli a piedi da posti molto lontani. La parola che più risuona nella mia mente è “sorprendente”. Erroneamente in tanti pensano (pensiamo) che qui in Africa il problema AIDS sia affrontato dagli occidentali verso una popolazione sorda alle voci di allarme. Vedo con soddisfazione che non è così.  Esiste un volontariato locale composto di persone consapevoli, seppure sieropositive, o forse proprio per questo, che sono spinte dall’intento di aiutare gli altri simili a vivere al meglio questa condizione “patologica”.  E’ ammirevole questa loro dedizione in un ambiente dove le risorse scarseggiano, seppure si sa che la Comunità di S. Egidio non risparmia nulla per venire incontro a una popolazione in difficoltà. Questa opera educativa, tra l’altro, viene svolta anche al domicilio di tanti che non riescono a raggiungere il Centro. E muoversi qui, in queste strade, non è proprio facile, non è una passeggiata. L’incontro termina con una Coca-cola o una Fanta e alcuni cake.  Cosa mi rimane di questi tre giorni intensi qui a Matiri: ho visto un’efficiente struttura sanitaria per la prevenzione e la cura della sieropositività, nonché una sorprendente sensibilità e partecipazione locale all’argomento. Tutto questo in una realtà ambientale più degradata di altre (per esempio la nostra di Nchiru), con una popolazione sparsa in zone impervie, in una terra arida e perciò incolta, che vive in abitazioni fatte di fango, con l’acqua da prendere ogni giorno a chilometri di distanza a piedi, con le taniche sulla schiena. Qui l’alba e il tramonto non sono uno spettacolo da gustare prima di andare a cena al lume di candela. Qui non c’è nemmeno la candela. Al tramonto si spegne la vita.





Matiri 25/08/2012           Nicola Samà            nicsam50@libero.it

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