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lunedì 8 ottobre 2012

The Money


“Senza soldi non se ne dicono messe”. Era un detto del mio paese in Calabria, ma credo che sia diffuso altrove. Le attività di questo villaggio, che si vanno estendendo dalla clinica alla scuola e al pozzo d’acqua potabile, oltre alle ordinarie spese di sostentamento e manutenzione, richiedono finanziamenti non indifferenti. Essendo l’iniziativa italiana, sembrerebbe ovvio pensare che essi arrivino dalla nostra terra, ma molti sanno quanto sono stati e sono fondamentali gli aiuti americani di Barbara e March. Altri nomi di sostenitori si trovano sul sito internet dell’Aina. Ho affermato più volte che è necessaria l’integrazione del nostro villaggio nel contesto sociale africano e che, pertanto, gli aiuti occidentali non debbano prescindere da essa. Questo significa, quindi, cercare di coinvolgere la società locale nel sostegno di un’iniziativa che, pur avendo origine occidentale, è sorta per creare qui un ambiente di cura e protezione per bambini sieropositivi orfani. In Africa sono numerose le ONG e le Onlus che agiscono sul campo dell’AIDS. Certo, non possiamo chiedere questo tipo di aiuto alla gente che vive nelle capanne intorno a noi, da loro ci aspettiamo un corretto rapporto di vicinato e conoscenza. Ma sappiamo bene che in questi Paesi africani esistono le banche e tante altre istituzioni, più o meno commerciali, come da noi. Esiste pure qui, insomma, la “beneficienza”. Ho descritto recentemente una visita gradita da parte di un’associazione di avvocati di Nairobi. Sabato scorso è stata la volta di una banca, DTB Bank, i cui operatori hanno fatto omaggio ai bambini di un pomeriggio divertente, con la presenza di tre clown. Essi hanno dimostrato una grande sensibilità per quest’iniziativa realizzata in favore di bimbi, figli di questa terra, che abbiamo accolto in condizioni precarie sanitarie e familiari. Hanno visitato con interesse gli edifici, hanno consegnato un bel po’ di doni, hanno partecipato alla festa organizzata per loro. I tre simpatici clown hanno coinvolto alcuni bambini nello show e tutti, poi, sulla “pista” per ballare. Mi risulta che i bambini hanno quasi saltato la cena, preferendo andare a dormire per la stanchezza. Un incontro gioioso che si spera proficuo per il futuro, ma sicuramente interessante anche ora, perché l’Aina ha bisogno di farsi conoscere e di estendere il campo dei possibili benefattori. Marek, d’altra parte, sta portando avanti una sua iniziativa per coinvolgere il più possibile sostenitori locali e non, con l’obiettivo di finanziare un’aula scolastica dedicata all’indimenticata Fides. In altri articoli ho citato i donatori dello studio dentistico, della scuola in costruzione e del pozzo in progetto. Tanti altri in incognito contribuiscono al sostegno finanziario di queste opere, ci sono amici miei che mi hanno affidato somme di denaro da destinare alle attività ritenute più opportune. Concludo quest’aspetto “materialistico”, ricordando che quello che mi preme personalmente è creare per questi bambini un ambiente il più possibile salubre, al fine di poter affrontare meglio il vitale aspetto educativo, costruttivo e integrativo di cui ho scritto in un recente articolo. Senza soldi il villaggio non vive, ma senza un “progetto educativo - integrativo” questi bambini che futuro avrebbero? 


                                                        Biglietto - invito per contributo

Foto di Attilio Ulisse

Nchiru 08/10/2012            Nicola Samà            nicsam50@libero.it

venerdì 5 ottobre 2012

Un beffardo inchino


Parcheggiati davanti a una farmacia a Meru, si avvicina al finestrino un bambino a chiedere l’elemosina, parlando in inglese. Non gli do retta, qui in città sono prudente e, in genere, rifiuto questo modo di aiuto se non conosco il soggetto. Passa una signora conoscente con il figlioletto, scambiamo qualche parola. Il bimbo sempre lì. Torna Marek dalla farmacia, parla con lui in kimeru, va in un negozio di fronte e gli compra una confezione di pane in cassetta. Piombano all’improvviso due ragazzi più grandi e tentano di strappare il pane dalle mani del bambino. Pronto Marek riesce a prendere il pane, facendo entrare il bimbo in macchina. Uno dei due ragazzi, con accento di sfida, gli dice in kimeru: ”Questo pane lo mangeremo noi…”. Mentre Marek tenta di ripartire rapidamente con la macchina, il ragazzo infila il braccio dal finestrino, arraffa la confezione del pane e scappa. Lo vedo che si ferma sul marciapiede e, con in mano il pane, ci fa un inchino, con uno sfacciato sorriso, come di uno che fa una bravata. La situazione richiede solo la fuga, avendo identificato i due come ragazzi di strada, non dei più innocui. Il nostro piccolo ospite ci confida che se parliamo con uno dei capi, il ragazzo sarebbe sicuramente punito per il gesto sconsiderato. Ovviamente soprassediamo, Marek dà una moneta e lo saluta, raccomandandogli prudenza. Questa è l’occasione di affrontare il discorso su un fenomeno abbastanza diffuso, non solo in questo Paese. Non ho notizie dirette, pertanto ricorro a informazioni avute da Attilio, che, in più occasioni, li ha frequentati. I “ragazzi di strada” sono una categoria di persone che per motivi vari non vivono in famiglia e svolgono la loro vita, appunto, per strada. Età dai 10 ai 30 anni, in maggioranza maschi, alcuni orfani o appartenenti a famiglie disagiate o, comunque, scappati da casa, vivono di elemosina per mangiare e vestirsi, ma ricorrono ai furtarelli se necessario. Per questo preferiscono ambienti cittadini dove c’è un mercato. Talvolta qualcuno accetta anche un lavoretto occasionale. Ho già descritto come le suore di Laare riescono ad avvicinare alcuni ragazzi, proponendo piccoli lavori in cambio di un pasto, vestiti e un letto. Vivono in gruppi, a Meru ce ne sono due, i più grandi tra loro sono i capi e distribuiscono gli “averi” a tutti. Compresa la “colla”. Questa è la loro droga economica, una colla industriale, che inalano a tutto spiano continuamente e che li stordisce fino al rincoglionimento, se non all’aggressività. Attilio ha avuto modo di avvicinarli, ogni tanto va a trovarli, facendosi accompagnare da un amico del luogo, li porta in un locale e offre loro un pasto. Ne ha invitati anche cento in una volta. Se capita, accompagna qualcuno in ospedale per medicazioni o altri problemi. Una volta, in segno di gratitudine, gli hanno fatto un regalo. Preferisco considerare una bravata l’accaduto, però il gesto è pericoloso, perché potrebbe innescare violenza. Probabilmente, il pane è stato distribuito ai suoi compagni, diciamo che è stata una “sottrazione proletaria”. Giudicate voi.





 Collaborazione e foto di Attilio Ulisse

Nchiru 05/10/2012                Nicola Samà              nicsam50@libero.it