Sulla
strada asfaltata che porta da Meru a Nchiru c’era, fino a circa un mese fa, un
cartello stradale, di medie dimensioni, su cui c’era l’indicazione “A.I.N.A.-
CHILDREN HOME” in direzione di una stradina sulla destra. E’ stato rubato. Poco
più avanti, nei pressi di un bivio, un altro piccolo cartello in legno con la
stessa indicazione è scomparso. Non sappiamo le ragioni, il metallo forse è
utile per qualche applicazione domestica. Circa 20 giorni fa all’alba hanno
rubato l’olio del trasformatore dell’energia elettrica. L’Ente Kenya Power l’ha
dovuto interamente sostituire. La Polizia indaga (?). Il guardiano notturno da
allora gira di notte con una grossa frusta. Il nostro villaggio è circondato in
parte da un muro di cinta alto circa 3 metri lungo la strada sterrata che porta
al nostro portone in metallo. Venendo dal paese si notano ai lati capanne,
terreni coltivati e non, s’incontrano gli abitanti del luogo, come ho già
descritto altrove. Un ambiente “africano”, insomma. Quando si oltrepassa il
portone, aperto sempre dal custode, mi viene in mente quel bellissimo film di
Sergio Leone “C’era una volta il West”, in cui Claudia Cardinale, scesa dal
treno, attraversando il portone o cancello si ritrova di fronte a quella magnifica
e per lei stupefacente veduta del West. (La bravura del regista è stata quella
si seguire dall’alto l’entrata di Claudia scavalcando il portone con la
macchina da presa; la musica di Morricone ha reso la scena indimenticabile).
Bene, quando si oltrepassa il nostro portone, sembra di entrare in un villaggio
turistico, in confronto alla realtà circostante. Un giardino con piante, fiori
e siepi separa da ogni lato i sei edifici (due dormitori, cucina e mensa,
lavanderia, casa dei volontari con la direzione, ambulatorio). Se si entra
quando tutti gli 89 bambini sono lì a giocare, l’impressione trova conferma. Ovviamente,
chi conosce la verità può solo gioire, forse stupirsi, al vedere che è stato
creato per questi bambini sieropositivi, in maggioranza orfani, un ambiente
abbondantemente confortevole. Circa 25 persone, house-mother e uomini per i
servizi, stanno qui ad accudire ai bimbi, a curare la shamba (terreno coltivato
e animali) o ad adoperarsi per la manutenzione. L’allegria che sprigiona da
questi bambini è il lievito che rende l’ambiente diverso da un orfanotrofio,
che di per sé richiama tristezza. Naturalmente, io so bene che al fondo di
tutto c’è il problema della salute precaria dovuta alla sieropositività, che
rende più fragili questi corpicini che, a vederli, fanno tanta tenerezza. So
che non sono giocattoli che abbelliscono il villaggio. Quando uno di loro si
ammala, spesso è un correre per ospedali (ho già scritto un articolo ad hoc),
si crea disagio, perché una house-mother si deve assentare per stare con il
malato. Vivere qui dentro non è una vacanza, neanche per i volontari che
durante l’anno si alternano per rendersi utili per la struttura o per i
bambini. Né ci si può stupire o allarmare per la febbre o la tosse, il vomito e
la diarrea che colpiscono ora questo ora quello. Forse ci si dovrebbe stupire
del contrario, vista la condizione di deficit immunitario di essi, senza
contare il problema della convivenza, con il rischio del contagio, o del
contatto continuo con la terra e l’erba quando giocano. Questa struttura,
questa residenza si può definire in tanti modi, ma non è un villaggio
turistico. Non posso fare a meno di ricordare che Agnes da ieri sera è in
ospedale per serie complicanze. Basta per confermare l’ultima mia
affermazione?
Nchiru
01/09/2012 Nicola Samà nicsam50@libero.it
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